Attraverso un incontro virtuale ma caloroso, Katrine Thomasen, consulente legale del Center for Reproductive Rights, organizzazione che si occupa di supportare legalmente i diritti riproduttivi, specialmente dove non vengono rispettati, ci ha aiutate a chiarire alcuni aspetti della situazione dell’accesso ad un aborto sicuro in Italia soprattutto rispetto al contesto europeo, dove risulta particolarmente arretrata rispetto agli altri Stati. Dopo essersi brevemente espressa sull’inadeguatezza del linguaggio stesso con cui viene presentata la Legge 194/78, la nostra interlocutrice si è concentrata sul contenuto, problematico, in quanto contenente nozioni che più che costituzionali sono ideologiche.
E’ evidente una forte influenza moralistica, nota nell’espressione di concetti volti alla colpevolizzazione della donna, come ad esempio la necessità del rispetto nei confronti della vita fin dal concepimento (concetto che, come Thomasen tiene a ricordare, non è legalmente espresso in molti Paesi). L’aborto sembra considerato una scelta negativamente connotata a prescindere. Lo è a tal punto che il personale addetto ad esso (composto solo da ginecologie ginecologhe, non includendo ostetriche) deve svolgere non più un ruolo prettamente medicale, piuttosto, si trova a dover tentare di influire sul pensiero della paziente per portarla ad evitare il più possibile di agire questa scelta.
“Le restrizioni legali sul luogo e sul personale abilitato a fornire le cure dell’aborto sono anche in contraddizione con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)”, fa notare Thomasen. Inoltre puntualizza anche che “la legge permette ai medici di rifiutare di fornire le cure a causa della loro coscienza personale, ma non riesce a stabilire un sistema di riferimento efficace e meccanismi che garantiscano che le donne abbiano a disposizione un accesso veloce a queste cure in tutte le circostanze”.
Il nostro Paese fa parte di una minoranza europea composta altrimenti da Ungheria, Albania e Olanda dove viene richiesta una spiegazione esplicita della motivazione dietro la domanda di interruzione di gravidanza. Sempre parte di una minoranza, in Italia una donna è costretta a presenziare a due consulenze generiche prima di una possibile operazione (consulenze che non hanno base medicale e che allungano i tempi di attesa). Alle consulenze segue un periodo di riflessione che l’OMS sconsiglia ma che tuttavia viene implementato da altri 7 Paesi europei (Belgio, Germania, Olanda, Portogallo, Lussemburgo, Spagna e Ungheria). Tutte queste pratiche allungano drasticamente i tempi di richiesta perl’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG), la quale invece in Italia deve avvenire d’obbligo entro i primi 90 giorni di gestazione, un tempo breve rispetto ad altri Stati europei.
Oltre ad essere particolarmente angusti, questi limiti sottopongono le donne che “ricorrono all’aborto al di fuori dell’ambito di applicazione della legge a sanzioni amministrative o addirittura penali, sebbene gli organismi internazionali per i diritti umani abbiano chiesto agli Stati di depenalizzare l’aborto”. Thomasen punta anche i riflettori sui problemi di salute che implicano queste restrizioni. “I problemi derivanti dal quadro giuridico italiano rappresentano delle barriere all’accesso delle donne alle cure abortive, possono contribuire alla pratica di un aborto non sicuro e a danneggiare la salute e il benessere delle donne”.
Non dobbiamo rinnegare l’importanza della Legge 194/78 che è stata una grande conquista per il periodo storico in cui è stata ottenuta. Dobbiamo però, confrontandoci con gli oltre 40 anni passati da allora e l’evoluzione del diritto internazionale e degli altri Paesi europei, trarre ispirazione, spingerci avanti e rivendicare necessarie aperture nei confronti dei diritti sessualie riproduttivi delle donna nel nostro Paese.
di Ginevra Anastasia Caponi