ABORTO DOPO I 90 GIORNI
QUANDO SI PUÒ FARE L’ABORTO TERAPEUTICO?
Secondo l’articolo 6 della legge 194/78: l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni della creatura nascitura, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
CHI ACCERTA CHE RIENTRO NEI CASI PREVISTI DAL PRECEDENTE ARTICOLO DI LEGGE?
Secondo l’articolo7: i processi patologici che configurino i casi previsti dall’articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti.
COSA DEVO FARE?
Una volta fatta una diagnosi (ecografica o genetica), è importante farsi rilasciare una consulenza chiara, ossia un referto sul caso e sulla prognosi. Devi trovare un ospedale dove lavori un ginecologo ospedaliero non obiettore che faccia l’aborto terapeutico. Se il tuo ginecologo ti dice che nell’ospedale dove lavora non si fanno, vuol dire che è obiettore, poiché per fare un aborto terapeutico non c’è bisogno di strutture o attrezzature particolari, ma solo di un ginecologo che lo attui. Chiedigli di indirizzarti ad un ginecologo non obiettore e recati al più presto da lui a presentargli il tuo caso. Sarà lui poi a seguirti in questo iter, ma ricordati che i ginecologi non obiettori non si limitano a fare solo gli aborti in ospedale. Sono ginecologi che seguono a tutto tondo la donna sia dal punto di vista ostetrico che ginecologico e permettono alla donna di usufruire della legge 194.
COME SI ATTUA?
Come viene indotto un aborto terapeutico?
Entro la 15esima – 16esima settimana di gravidanza potrebbe avvenire in modo molto simile a quanto avviene per l’interruzione volontaria di gravidanza entro i 90 giorni, e cioè: preparazione del collo uterino all’intervento mediante somministrazione 3-4 ore prima dell’intervento di prostaglandine, per via vaginale o per via sublinguale, che faciliterà l’intervento stesso; svuotamento della cavità uterina tramite apposite cannule di Karman oppure tramite un raschiamento in anestesia generale.
DALLA 16esima SETTIMANA IN POI:
Nella maggior parte dei casi, dalla 16° settimana in poi sono più usati in Italia alcuni protocolli che consistono nell’ induzione di un piccolo travaglio di parto che permetta all’utero di espellere il feto.
Vi sono diversi protocolli:
a) uso di prostaglandine per via vaginale
b) uso della RU 486 e a seguire di prostaglandine
c) Iniezione intracardiaca nel feto
d) taglio cesareo
A) USO DI PROSTAGLANDINE PER VIA VAGINALE
Il protocollo più usato consiste nella somministrazione nell’arco di 12 ore di prostaglandine per via vaginale. Viene cioè introdotto in vagina 1 ovulo ogni 3 ore, per un massimo di 5 volte.
B) USO DELLA RU 486 E A SEGUIRE DI PROSTAGLANDINE
Altro protocollo attualmente possibile ora in Italia, consiste nella somministrazione da una a 3 compresse di Mifegyne (più conosciuta come RU 486) seguita a distanza di 72 ore dalla somministrazione di prostaglandine (Cytotec o Misoone) per via sub-linguale, ogni 3 ore per un massimo di 5 volte. In alcune regioni d’Italia, dopo la prima assunzione di Mifegyne in regime di Day Hospital, la donna può tornare a casa in attesa del secondo rientro nella struttura ospedaliera, questa volta in regime di ricovero. In altre regioni, è obbligatorio il ricovero fin dalla prima assunzione del farmaco e se la donna non desidera permanere in ospedale deve firmare che rifiuta il ricovero.
Dopo aver intrapreso il protocollo a) o b), si attende che l’utero cominci a contrarsi ed insorga un piccolo travaglio di parto. Questo non vuol dire che la donna sarà in travaglio per 12 ore. Tutto è relativo alla grandezza dell’utero. Cioè non sarà mai come un travaglio che insorge alla 40esima settimana, ma sarà un travaglio molto più breve e decisamente meno intenso. Durante le contrazioni, in accordo con gli anestesisti, è possibile eseguire una adeguata terapia antidolorifica. Si ribadisce che l’analgesia per il dolore è doverosa, indipendentemente dalla causa che provoca il dolore e che su questo argomento non ha nessuna ragione di esistere l’obiezione di coscienza in quanto l’analgesia non determina l’aborto. La paziente generalmente viene trasferita in sala operatoria quando vi è una dilatazione completa del collo uterino. Al momento dell’espulsione, se la donna lo desidera e se nella struttura è possibile, si può effettuare un’anestesia generale. Dopo aver prestato assistenza all’espulsione del feto, l’operatore può ritenere opportuno eseguire una revisione della cavità uterina (raschiamento). Un esame ecografico viene eseguito comunque prima della dimissione, che avviene in genere nella prima giornata post abortiva.
C) INIEZIONE INTRACARDIACA
In alcuni casi, per effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza dopo i primi 90 giorni, si procede in ambiente ospedaliero e sotto guida ecografica con un’iniezione intracardiaca nel feto di una sostanza che determina l’arresto cardiaco. Dopo tale iniezione, la paziente può decidere di ricoverarsi in qualsiasi ospedale. Infatti la diagnosi a questo punto è di morte endouterina del feto e qualsiasi ospedale con un reparto di ostetricia e ginecologia è obbligato al ricovero e all’assistenza. Una volta ricoverata, la donna viene osservata, e se non inizia spontaneamente un travaglio si procede con la somministrazione di farmaci seguendo uno dei protocolli sopra menzionati. Tale metodica dell’iniezione intracardiaca si usa in alcuni centri specializzati, soprattutto nei casi di gravidanza gemellare, quando solo uno dei feti è affetto da grave patologia.
D) TAGLIO CESAREO
Un taglio cesareo in questa epoca di gravidanza può essere molto rischioso e invasivo, di conseguenza si predilige sempre un’induzione farmacologica del travaglio. Anche nei casi in cui la donna ha avuto precedenti tagli cesarei o altri interventi ginecologici, come ad esempio l’asportazione di fibromi, è bene considerare il taglio cesareo come ultima possibilità, o in casi di asma bronchiale materna, o di placenta previa (inserzione placentare a livello dell’orifizio uterino, punto di passaggio per l’espulsione fetale).
IN QUANTO TEMPO AVVIENE L’ESPULSIONE?
Il tempo che intercorre dall’assunzione del farmaco all’espulsione dipende dal tipo di protocollo usato e dalla conformazione e reattività uterina della donna.
QUANTO DURA LA DEGENZA?
Se l’utero risponde subito ai farmaci la degenza può durare 2 giorni:
il primo giorno per l’induzione del travaglio e il secondo per valutare le condizioni della donna (parametri vitali ed ecografia)
SE DOPO UN PRIMO CICLO DI FARMACI NON SUCCEDE NULLA?
La donna dovrà riposare per 24 ore, poiché non si possono somministrare ulteriori farmaci di questo tipo nelle successive 24 ore. Passate queste 24 ore di riposo, si dovrà aspettare che sia in turno personale non obiettore per poter assumere nuovamente la terapia.
COSA SUCCEDE AL FETO?
Si può decidere di affidare il feto al servizio ospedaliero che procederà ad una sepoltura o si può decidere di occuparsene personalmente firmando una liberatoria all’ospedale.
ENTRO QUANTO TEMPO POSSO PRATICARE L’INTERRUZIONE?
La legge non precisa un tempo. Dal momento che negli anni è aumentata la possibilità di vita autonoma del feto, in alcuni ospedali si assiste al tentativo di rianimare un feto patologico da parte di alcuni neonatologi, con gravi conseguenze sulla psiche della donna che ha deciso di interrompere la gravidanza. Per convenzione, si è fissato come limite massimo di inizio di interruzione l’epoca gestazionale di 23 settimane e 6 giorni. Questo limite non appare giustificato nei casi di anomalie incompatibili con la vita, come l’agenesia renale bilaterale e l’anencefalia. Si possono poi considerare i feti con anomalie gravi per i quali, nell’ambito della personalizzazione della patologia presente, lo specialista esperto può pronunciarsi sulla non capacità di sopravvivenza e a maggior ragione di vita autonoma.